Tra il 1951 e il 1960, i docenti delle scuole di tutta Italia, si trovarono ad affrontare l’ingresso a scuola di quasi 1 milione di nuovi studenti, d’ogni estrazione sociale. Fino a quel momento, l’accesso a scuola era riservato ai figli dei notabili e degli esponenti della borghesia. Le classi erano meno numerose e più omogenee: gli allievi avevano lo stesso background culturale, frequentavano gli stessi ambienti, svolgevano le medesime attività extrascolastiche.
I docenti non avevano i mezzi e le risorse (oggi diremmo, le competenze) per affrontare questa scolarizzazione di massa. Furono costretti a far fronte a barriere comunicative e linguistiche: gran parte dei nuovi allievi si esprimeva in dialetto, che molto spesso era l’unica lingua parlata in famiglia. Non di rado, questi ragazzi venivano ghettizzati nelle classi differenziali, insieme agli allievi con difficoltà di apprendimento.
Per diversi decenni, la dispersione scolastica fu altissima e, quasi sempre, i risultati riflettevano lo status d’origine dei discenti. Anche l’uguaglianza di trattamento aveva fallito: accentuava ulteriormente le distanze sociali. Era un po’ come chiedere a due atleti di correre distanze differenti nel medesimo arco di tempo. Così negli anni ’70, si aprì un dibattito su uguaglianza e merito.
Il vento del cambiamento era tornato a soffiare forte sulle istituzioni educative italiane. Dopo anni di silenzi normativi, a partire dal 1962, furono avviate una serie di riforme scolastiche che misero a dura prova, ancora una volta, certezze ed equilibri dei docenti. Si parlava, per la prima volta, di centralità del discente: tra il 1977 (legge 517) e il 1992 (legge 104) furono abrogate definitivamente le classi differenziali e si intraprese la via dell’inclusione sociale.
A partire dalla seconda metà degli anni ’80, i simboli di quella che oggi definiamo scuola tradizionale, iniziarono progressivamente a crollare: quando l’allora ministro della Pubblica istruzione, Sergio Mattarella, con la Legge 148 del 1990, sostituì il maestro unico con una pluralità di docenti, fu chiaro che la cattedra non rappresentava più il centro del sapere.
Se per la scuola del passato rigidità e selettività erano sinonimi di qualità, per la scuola dell’autonomia, quest’ultima, doveva passare attraverso processi di autovalutazione e valutazione (esterna) delle stesse istituzioni educative. Ci fu una grande resistenza a queste profonde trasformazioni: i docenti, valutatori per eccellenza, erano chiamati questa volta ad essere valutati.
Le politiche di Austerity adottate durante la crisi finanziaria (2007-2013), incoraggiano tagli lineari a servizi e infrastrutture. Governi di centro-destra e centro-sinistra si muovono all’unisono. La fiducia nella politica è ai minimi storici, tanto che alle elezioni del Parlamento europeo del 2009, si registra un record di astensione (56,91%): sono tutti uguali, era l’opinione più diffusa.
Secondo il Prof. Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici italiani, l’Italia è il Paese europeo che investe meno nell’Università: solo 5,5 miliardi di euro (lo 0,3% del Pil italiano) contro i 25,1 miliardi della Germania (0,8% del Pil tedesco).
Secondo la Rilevazione OCSE PISA 2018, condotta su oltre mezzo milione di quindicenni, provenienti da 79 Paesi differenti, i livelli di compentenze in Lettura, Matematica e Scienze del nostro campione di studenti ha registrato risultati inferiori alla media OCSE: L’Italia si colloca al 26° posto.
Con l’autonomia scolastica, le istituzioni educative spalancano le porte al territorio. Anche gli stakeholders della scuola (studenti, famiglie, comunità locale, …), attraverso l’ascolto, la condivisione e la rendicontazione (bilancio sociale), contribuiscono alla redazione del Piano dell’Offerta Formativa (POF); con obiettivi di efficienza, efficacia ed equità. Il Preside è sostituito dal Dirigente Scolastico con competenze prevalentemente gestionali e manageriali.
Nella scuola contemporanea il docente è chiamato a rispondere ai crescenti bisogni educativi speciali (BES), a lavorare in un’ottica di trasparenza (attraverso l’utilizzo puntuale del registro elettronico), ad avere maggiori contatti con le famiglie degli allievi, sempre più interessate e partecipi alla vita scolastica: insomma, ai professionisti della scuola, sono richieste sempre più competenze antropo-psico-pedagogiche.
La sfiducia nelle istituzioni, aggrava la crisi dei valori, già tipica della società postmoderna: se fino a qualche decennio fa l’autorità del docente era accolta e rispettata da famiglie e studenti, nella scuola di oggi è frequente assistere a contestazioni d’ogni genere.
Probabilmente la pensa in questo modo Ernesto Galli della Loggia, professore emerito di Storia contemporanea, che nella sua lettera alla scuola, su corriere.it, pubblica 10 proposte provocatorie, indirizzate al MIUR. Per citarne alcune:
Reintroduzione in ogni aula scolastica della predella, in modo che la cattedra dove siede l’insegnante sia di poche decine di centimetri sopra il livello al quale siedono gli alunni. Ciò avrebbe il significato di indicare con la limpida chiarezza del simbolo che il rapporto pedagogico — ha scritto Hannah Arendt, non propriamente una filosofa gentiliana, come lei sa — non può essere costruito che su una differenza strutturale e non può implicare alcuna forma di eguaglianza tra docente e allievo. La sede propria della democrazia non sono le aule scolastiche.
Obbligo per ogni classe di ogni ordine e grado di alzarsi in piedi in segno di rispetto (e di buona educazione) all’ingresso nell’aula del docente.
Cancellazione di ogni misura legislativa o regolamentare che preveda un qualunque ruolo delle famiglie o di loro rappresentanze nell’istituzione scolastica. Dal momento che non ci sono rappresentanti dei pazienti nelle strutture ospedaliere, né degli automobilisti negli Uffici della motorizzazione, né dei contribuenti nell’Agenzia delle Entrate, non si vede perché debba fare eccezione la scuola. Si chiama demagogia: meglio farne a meno.
Affidamento della pulizia interna e del decoro esterno degli edifici scolastici agli studenti… Un mezzo utilissimo per instillare negli studenti stessi il sentimento di appartenenza alla propria scuola e per insegnare alle giovani generazioni il rispetto delle proprietà pubbliche e gli obblighi della convivenza civile (non s’imbrattano i muri!).
Così, nella scuola come in decine di altri ambiti, la società italiana si divide tra la ricerca di valori nuovi con lo sguardo volto al futuro e la nostalgia del passato nel tentativo di ripristinare i valori perduti.
La risposta risiede nella ricerca pedagogica, la cui applicazione non può e non deve limitarsi alla scuola. Per una classe dirigente indisciplinata, priva di finalità e valori si rende necessario un vero e proprio intervento educativo: educare vuol dire anche costruire il futuro. Solo in questo modo potremo parlare davvero di comunità educante.
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