Seneca affermava: “Spesso nel giudicare una cosa ci facciamo trascinare dall’opinione e non dalla vera sostanza della cosa stessa”. L’opinione, il pensiero negativo, il preconcetto che si può generare su qualcuno, qualcosa, situazione non vissuta pienamente in prima persona o non conosciuta abbastanza, è racchiuso nel pregiudizio.
E’ un giudizio, un concetto, spesso con accezione negativa, che viene formulato per giudicare un’entità, una situazione, un avvenimento prima ancora di conoscerne le caratteristiche, i dettagli.
Nasce perché, molto spesso, il genere umano ha bisogno di etichettare qualcuno o qualcosa, attraverso un’idea costruita – senza alcuna logica – su ideologie o punti di vista, del tutto soggettivi. Si diffonde attraverso voci, che, man mano, acquistano di credibilità. È come un virus, che colpisce una persona che, a sua volta, contagia tutti coloro che entrano in contatto con essa; e così via. A differenza del virus però, per il pregiudizio non esiste una cura: tentativi di confronto e dialogo, molto spesso, risultano vani.
Può colpire tutti e, la maggior parte delle volte, riguarda minoranze e soggetti stigmatizzati: da difetti fisici, “semplicemente” un colore della pelle diverso, una religione differente, gusti sessuali difformi rispetto a quelli socialmente accettati. Il pregiudizio, insomma, non lascia incolume proprio nessuno!
Talvolta il pregiudizio è “violenza psicologica”: quel maledetto dito puntato contro – magari da persone vicine a noi – potrebbe danneggiarci ancora di più, colpire la nostra autostima, provocare stati umorali depressivi, ansia; fino ad arrivare a conseguenze disastrose.
Un esempio sono le donne stuprate, abusate, violate nell’intimo, picchiate, perseguitate, minacciate, stalkerizzate, le quali devono fare i conti anche con chi chiede loro: “E tu come andavi vestita?”, oppure “Eh, ma chissà cosa hai fatto tu per portarlo a picchiarti!”, o ancora “Se pubblichi certe foto sui social, cosa ti potevi aspettare!?”. Questi solo alcuni dei luoghi, ancora troppo comuni (purtroppo), nella mia Brindisi ma non solo: giudizi, cattiverie e prese di distanze che non fanno altro che demotivare la vittima e farle capire che non può contare sul loro aiuto. Come se si giustificasse la violenza, in qualche modo!
Se solo ci mettessimo, per un attimo solo, nei panni di coloro che hanno subito violenza, penso che il pregiudizio non farebbe piacere neanche a noi. Dubito che essere giudicate per un vestito o un presunto atteggiamento provocatorio – che avrebbe potuto, in qualche modo, incoraggiare una violenza – non segnerebbe chiunque di noi. Quella che a noi, in un primo momento, sembra una frase senza senso, un “consiglio”, ad altri potrebbe fare tanto male, rafforzando un pensiero ricorrente in questi casi: “E’ colpa mia!”.
Un pregiudizio è anche un handicap personale: chi sperimenta pregiudizio, non riesce a superarlo, costruendo un muro intorno ad un modo di pensare che diventa quindi un’insieme di stereotipi, preconcetti, sui più svariati argomenti (sesso, religione, donne, ecc… ). Assistiamo ad assurde etichette del tipo “tutte le bionde sono stupide!”.
In psicologia, esistono test, chiamati “di Associazione Implicita” (IAT o anche “Implicit Association Tests”), che valutano le impressioni implicite e le convinzioni relative alla diversità tra gli individui e rivelano, quindi, i pregiudizi verso determinate persone.
In più, ci si può responsabilizzare, riconoscendo i propri pregiudizi e sostituendoli con ragionamenti più logici. Molto importante sarebbe, inoltre, il riconoscere le conseguenze negative che può causare un pregiudizio: abbassamento dell’autostima della vittima, depressione, ansia e tutte le altre implicazioni che abbiamo visto fin qui, fino a situazioni ben più gravi e devastanti.
L’incontro, il confronto e la frequentazione di persone di diverse etnie, religioni e orientamenti sessuali aiuterebbero a comprenderne le differenze, attraverso un ascolto e uno scambio di esperienze.
Un modo per riuscire a scardinare i preconcetti è anche la non giustificazione dei luoghi comuni, che portano solo ad un rafforzamento degli stessi deleteri – perché etichettano una categoria di persone – e privi di logica, in quanto generalizzazioni.
Questo significherebbe, però, affrontare i propri “limiti” mettendosi in discussione. E, molto spesso, non si ha il coraggio di farlo!
Mettersi in discussione è una grande prova di crescita e di maturità personale. Non è un percorso semplice, in quanto, in linee generali, si tratta di fare un resoconto della propria vita e trarne le giuste conclusioni. In questo caso soprattutto, le nostre opinioni sono rappresentative di noi stessi. Fondamentale è capire cosa vogliamo essere e quali siano le nostre intenzioni. Se, ovviamente la maturità ed il distinguersi sono essenziali, ci verrà alquanto facile iniziare un percorso di cambiamento. Se, invece, non ci interessa aprire la mente, ampliare gli orizzonti, confrontarci con persone “diverse”, circondarci di positività e stimoli differenti rispetto a quelli avuti fin ora, allora le cose sono assai diverse.
In tanti preferiscono rimanere nel limbo, bloccarsi ad un certo punto della propria vita, perché, in questo modo, si hanno più “amici”. Il mettersi in discussione, l’apertura mentale, scardinare certe ideologie, cercare di non giudicare, capire, comprendere, dare sostegno, agire, sono tutte azioni complesse che generano più dissenso che consenso. E non sempre siamo pronti. Per questo non biasimo queste persone.
In una società, dove l’immagine è fondamentale, non ci si può permettere di non avere “amici”. Tanti “amici”. Così ci adattiamo, servendoci di una sorta di “populismo” del consenso sociale. Per non restare segnati. Soli.
una società malata, priva di valori, sempre pronta a mettersi dalla parte del “giudice incontrastato” e non quella della vittima. Quella società egoista, che non lascia spazio all’umanità. Fortunatamente, però, non tutti sono così! C’è chi ancora si batte per le “minoranze: chi si mette a disposizione di chi non ce la fa, chi trascorre il proprio tempo libero (e non!) per aiutare chi ha bisogno. Sono quegli “invisibili”, quegli angeli reali che si rimboccano le maniche ed aprono il proprio cuore, senza fare alcuna differenza. Sono quelle persone che non guardano l’aspetto esteriore, ma si innamorano dell’anima. Sono coloro i quali si immedesimano negli altri e ne traggono profitto umanitario. Sono quelli che sappiamo che ci sono, ma che non “vediamo”. Sono quelli dai quali dovremmo imparare. Sono quelli che ci aiuterebbero a guardare le situazioni con occhi diversi, con quegli occhi “giusti” con i quali andrebbero guardate.
Il pregiudizio fa perdere di vista l’umanità ed il senso civico.
Abbiamo una testa. USIAMOLA!